Palumbo, quegli inchini ai mafiosi e la religione che fa pietà…

L’antropologo Berardino Palumbo nel saggio “Piegare i santi”, sebbene con linguaggio tecnico, analizza la commistione tra religiosità popolare e realtà mafiosa. Un testo non ideologico, senza morbosità, in cui si scrive di mafia mescolata alle feste cattoliche di paese, sopravvivendo alla tentazione di usare l’argomento mafioso per parlar male della chiesa

Questa volta comincio dalla fine. Anche se scrivo adesso questo articolo, ho letto l’ultima pagina di questo libro lo scorso 21 dicembre. L’ho finito, l’ho posato sulla sedia accanto alla mia poltrona e ho dato un’occhiata al telefonino (perché nel frattempo mi erano arrivati decine di messaggi di auguri strategicamente pre-natalizi), ma una notifica ha attirato la mia attenzione: una notizia dell’ultima ora annunziava che papa Francesco aveva dato il via libera alla Congregazione delle Cause dei Santi per promulgare i decreti del martirio del Servo di Dio Rosario Livatino, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 e adesso definitivamente riconosciuto martire. Ucciso in odio alla fede, così recita il decreto. Quella stessa fede che diventa oggetto di studio antropologico per Berardino Palumbo, nel suo Piegare i santi (176 pagine, 13 euro), pubblicato dalla casa editrice Marietti,

Poso il telefono, riprendo il libro, sorrido per la… coincidenza (sorrido per il fatto che, relativamente alle coincidenze, sono un ateo professo), e rivolgo un pensiero affettuoso al Giudice ragazzino, che immagino mi sorrida beato, con una strizzatina d’occhio che – prosaicamente – traduco in un solenne e canonico vaffanculo rivolto all’universo sistema della criminalità organizzata.

Poi rifletto. Ripercorro a saltare certi passaggi del libro, mi soffermo ancora su certe pagine, su certi periodi segnati dal mio evidenziatore giallo, su certe descrizioni dell’autore, chiudo gli occhi e ricostruisco – chiedendo alla mia immaginazione una cortesia di memoria – scene perfettamente descritte da Palumbo, alle quali ho in più di una circostanza assistito in prima persona.

I compromessi con la mafia

Antropologo e professore ordinario in Scienze della Formazione, presso l’Università di Messina, Berardino Palumbo trasforma uno studio accuratissimo, di inequivocabile pregio scientifico, in un libro la cui intrinseca vocazione è quella di fuggire dalle emeroteche universitarie per imporsi ad una più ampia lettura da parte di un pubblico desideroso di conoscere, fin dentro le più recondite pieghe, il funzionamento del fenomeno umano quando, nella commistione tra religiosità popolare e realtà mafiosa, questo assume forme cultuali che, lungi dall’essere vera espressione di pietà religiosa, diventano una religione che fa pietà.

E lo dico senza imbarazzi. Scandalizzato, certo, ma senza imbarazzi. Perché anche il minimo imbarazzo – nel riconoscere fino a che punto, vergognosamente, si è stati capaci di scendere a compromessi con la mafia – sarebbe un’offesa all’autore, al suo lavoro, alla sua dedizione e alla fatica con cui ha messo insieme tutti i pezzi di questo saggio. Oltre che un’offesa, ovviamente, a quanti – canonizzati o meno – c’hanno lasciato la pelle.

Un saggio che – lo dico subito – non è certo una lettura da comodino, non è agilissimo come un romanzo e anzi risulta appesantito, a mio avviso, da una terminologia ancora troppo tecnica ed universitaria. Peraltro, tutto ciò diventa per un lettore un’occasione per ampliare i propri spazi linguistici e lessicali, assumendo categorie che – da quel momento in poi – potranno far parte del suo orizzonte culturale.

Ma, un po’ come il nome di Ponzio Pilato compare nella nostra Professione di fede con lo scopo di collocare storicamente l’Evento cristiano, allo stesso modo questa terminologia credo assuma l’incarico di affermare che, nonostante si parli di cose popolari, queste sono tutt’altro che chiacchiere da bar e, anzi, c’è gente che ne fa oggetto di studio più di quanto possa fare un barbiere col suo cliente, mentre gli insapona la faccia e vede entrare nel salone il Dott. Navarra…

Denunciare i silenzi

Il pregio di quest’opera, in un tempo in cui l’ideologia è diventata di moda, e la moda è la peggiore delle ideologie, è quella di non essere invasa dalle solite trame di sotterfugi storiografici o narrativi volti a inclinarne la pendenza verso direzioni precise. Per capirci, in un testo in cui si parla della mafia nel contesto in cui questa si mescola alle feste cattoliche di paese, il libro sopravvive alla tentazione di usare l’argomento mafioso per parlar male della chiesa; né, peraltro, sembra perdersi nella deriva opposta, che sarebbe quella di voler giustificare l’ingiustificabile a tutti i costi, creando cesure forzate tra sistemi criminali e sacri(leghi) uffici lì dove, semplicemente, queste cesure non ci sono mai state. Molto più semplicemente, ci sembra, il testo pone in oggetto le circostanze descritte così per come si sono svolte, denunciando i silenzi di chi – come cittadino e come cristiano – avrebbe dovuto denunciare prima che un libro si facesse denuncia.

L’approccio antropologico, che in certi punti assume il rampante ed ironico tratto giornalistico (e come possono non ritornarci in mente Giuseppe Fava o Peppino Impastato?), è azzeccatissimo nel descrivere i fatti senza che questi sopravanzino le intenzioni dell’autore, il quale rimane a distanza di sicurezza non dai fatti in quanto tali, ma da quella tipica morbosità narrativa di chi, talvolta, esponendoli, se ne rivela ingranaggio interpretativo. Se un’ermeneutica c’è, da parte di chi scrive, essa è quella scientifica di chi usa l’occhiale come microscopio, di chi scende in profondità rimanendo mondo dai lezzi del cortile. E tuttavia – e questo a mio avviso costituisce il punto di forza di questo libro – l’antropologo si fa uomo quando, da uomini, non ci si può esimere dal dire la propria. E parla. Come parlerebbe ciascuno di noi. Come ciascuno di noi potrebbe e dovrebbe parlare.

Circoscrivere i criminali e cambiare dall’interno

Altro merito del testo, che spesso riporta intere citazioni registrate da interviste in loco, è quello di non lasciarsi troppo cullare dalla tendenza (sempre più di moda) dei facili entusiasmi eroistici di chi, dovendo colpire al centro il bersaglio mafioso, spara a zero su tutto ciò che vi è attorno. E così, per esempio, mafioso diventerebbe il contadino che ha mietuto il fieno mangiato dal vitello che è stato venduto dal vaccaro al macello e le cui carni, tagliate in duecento grammi di scaloppine, sono finite avvolte nella carta oleata che il macellaio ha porto alla signora Riina che era andata a fare la spesa… In questa fiera dell’Est della mafia, in cui si rischia di amplificare ogni oltre legittima verosimiglianza il concetto di struttura di colpa, è facile estendere la denominazione mafiosa a quanti, semplicemente, appartengono allo stesso pianeta in cui il mafioso vive e prospera.

Palumbo non semplifica affatto in tale maniera: se fosse un idealista commetterebbe forse questo errore; se fosse un sanfedista lo commetterebbe magari sul versante opposto; ma è un antropologo e dunque è capacissimo di affermare che, per esempio, la necessità popolare di festeggiare un santo patrono rimane di per sé legittima (come fenomeno umano) anche quando è capace di adulterarsi con ciò che è popolare pur non essendo santo. Palumbo non butta l’acqua sporca con tutto il bambino, e tira le orecchie a chi – prete – in un impeto di slancio pneumatico tra il sessantottino e il post-conciliare, si scaglia tout court contro la festa di Sant’Agata, condannandola in toto, decidendo di disertarla eroicamente e consigliando a fare altrettanto, bollandola per sempre come un cespo di iniquità; laddove sarebbe molto più eroico (e faticoso) rimanerci dentro per sforzarsi di operare il cambiamento dall’interno, sporcandosi non la coscienza, certo, ma le vesti (anche quelle sacre), se questo dovesse significare vero amore verso ciò che si desidera salvare. Se la propria amata rischiasse di annegare nel fango, non le si griderebbe il proprio amore dal ciglio della palude, ma ci si getterebbe a capofitto nel liquame, per tirarla fuori di lì e condurla in salvo.

Tra segni snaturati e devoti veri

Semmai, se con una gamba rotta e senza stampelle non è più possibile camminare, allora ci si ferma e si aspetta la guarigione. E allora sì, come a Paternò, dove le varette passano davanti la casa del boss e celebrano il loro omaggio musicale, la loro danza propiziatoria. Lì sì che le varette andrebbero smontate, se non si fosse più che certi che il loro itinerario sia quello giusto. Ma anche lì… a chi appartengono questi segni? Dove si può scorgere il confine in cui una festa religiosa cede i propri segni a chi non li comprende, li fraintende, li snatura? A chi appartiene davvero la Santuzza, alla chiesa dalla quale è uscita in processione o alla folla che se ne impossessa? A chi apparteneva davvero il Cristo della Passione, al gruppo dei Dodici dispersi nel Getsemani o allo stuolo di soldati e di guardie che lo tradussero in catene fino ai luoghi in cui la folla decretò la sua morte?

Non sono certo, e non vogliono essere, domande retoriche. Ma solo spunti di riflessioni generati dalle pagine del libro di Palumbo. Certo è che, a Gerusalemme, in mezzo alla folla inferocita, c’erano anche i Dodici, muti, spaventati, forse anche colpevolmente omertosi. Ma almeno uno di essi, dal Getsemani alla croce, non rinunciò al suo posto coraggioso accanto al Maestro. E questo fece la differenza. Sarebbe bello se, tra i fuochi d’artificio e le luminarie delle nostre feste popolari, qualche devoto lo fosse davvero, dall’inizio alla fine. Il suo posto coraggioso accanto alla Santuzza di turno toglierebbe certo uno spazio di troppo a qualche mafioso.

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